In Levare

FrancescoCarone, Maria Deval

 

In Levare

testo di Emanuele Becheri

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circoscriva
col suo superchio, e solo quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto

Michelangelo Buonarroti (1538)

In Levare è il titolo della  mostra che raccoglie le opere di due artisti, Francesco Carone e Maria Deval. Lo spazio di Fuocherello di Volvera accoglie al suo interno cinque sculture e una stampa tratta da una matrice xilografica in legno di ciliegio.
I due artisti nel corso della propria ricerca si sono cimentati con la scultura, ma il tratto che caratterizza questi specifici lavori in mostra è la pratica della scultura a taglio diretto.
In Levare è la consumata apparizione dell’immagine dal blocco, avventura plastica che si differenzia dal modellare o da qualsiasi altra techne e forse la pratica più antica dello scolpire: essenzialmente un viaggio senza ritorno, laddove, quando cavi, cavi per sempre.

Prima di questa decisa  intenzionalità c’era solo il sasso e l’albero a stagliarsi nel paesaggio.

Di Francesco Carone il primo lavoro che mi colpì fu il ritratto scolpito  di un nocciolo  (Nocciolo, 2012) – seppi poi – intagliato dal ramo dalla stessa pianta che l’aveva generato (un pesco in fiore). Di fatto  una scultura con un autentico peso specifico, che chiedeva di essere guardata con attenzione.  Il circolo virtuoso che Francesco aveva innescato ampliò lo sguardo su quella scultura; ma ciò che mi rimase più impresso fu quella presenza, quel deposto nocciolo: la sua piccola dimensione monumentale racchiudeva il seme dello scolpire.
Mentre di Maria Deval ho visto per la prima volta una testa due anni fa. Costretto ad avvicinarmi per la sua dimensione al limite del visibile, ne ho visto la decisività dello sguardo: ciò che era presente  non aveva una forma, usciva letteralmente dalla scultura, generava un paesaggio. Lo sguardo della scultura.
Come soffiare dal tempo.
Ho saputo poi che quella testa, che lei chiama Selva, era stata intagliata sfruttando un nocciolo.

Mi domando da quale temperie arrivi oggi l’ostinazione di questi due artisti a cavare via il superfluo dalla massa, a rendere vivo o morto un materiale a colpi di scalpello.
Quando guardo le loro opere, ho la percezione di vedere i due artisti nell’atto di scolpire. Non so se questo fantasma sia un valore, un annebbiamento o il valore stesso di queste sculture, ma di certo  questi ex materiali paiono definitivamente vivi.

Se vediamo la scultura Trans Transverberazione (2016), potremmo anche fare a meno di sapere che è stata intagliata da un oggetto fatto in serie nel 1962 . Invero, ciò che emerge nel vederla è la tensione di una figura umana che sprofonda nel marmo: venature impreviste ne disegnano le masse, sbozzature mai finite suggeriscono vedute forme. Della figura, gli arti sinistri – inarcati nel blocco quasi a volerne uscire – fanno da contrappunto alla mano destra, che copre la ferita in mezzo alle gambe: accentrando lo sguardo su ciò che non si vede e che forse è la materia di cui è fatta l’opera, l’artista ridesta l’oggetto in scultura.

Appoggiato su una mensola aggettante dal muro sta un intaglio ligneo (Bastet, 2024): una figura felina in attesa che richiama echi e suggestioni plastiche e che il nome – vasto di significati e contraddittorio nei secoli – rafforza ma non rivela. Siamo difronte, o meglio, siamo obbligati ad inchinarci sulla sua dimensione per vederne i dettagli; ma quando ci allontaniamo dalle linee e dalle masse che la costituiscono, questa postura solenne del corpo, scolpita dal medesimo blocco su un ipotetico basamento, produce uno sguardo che va ben al di là delle linee e delle masse che la compongono.

Golgota (2021) è un blocco di mogano intagliato, esposto a terra: un tutto tondo sbozzato con la motosega e poi dettagliato con lo scalpello in larghe foglie tondeggianti, come se fossero state tempestate dal mare. Forse, non a caso, Francesco Carone nella parentesi che segue il titolo Golgota usa la specifica “scoglio” (un riferimento, il mare, presente in tutta la sua poetica).
Il mare, grande scultore, consuma tutto ciò che la sua forza lambisce.
E se andiamo a vedere il seme delle parole che compongono la parola “Golgota”, scopriamo che hanno significati relativi ‘all’essere rotondo, circolare ’; certamente l’artista ne ha tenuto conto,  facendo coincidere la phonè con le forme.
Ma questo Golgota ha una particolarità che lo differenzia dal canone e lo rende unico nel suo genere: una frangia scolpita sta come adagiata sulla sua sommità, cicatrizza l’incavo che avrebbe dovuto accogliere il legno della Croce.
Resta un Golgota, un Calvario, e appunto il luogo del Teschio. Scoglio sferzato dalle onde.

Profilo (2024). Sul taglio di una scheggia di legno emerge un mezzo busto dai tratti satireschi appena visibili, abbozzati dai soli colpi di scalpello; tratti che fanno tutt’uno con lo slancio architettonico della scheggia. Acuto è il suo profilo.

Adoratore (2016) è una cornice intagliata che riproduce il margine esterno (in scala 1:1) de  L’idolo Ermafrodito, opera di Carlo Carrà (1917), successivamente inchiostrato per trarne delle stampe xilografiche su carta, una delle quali è in mostra in assenza della sua matrice. Dunque l’artista ha costruito una cornice di ciliegio – non a caso la durezza della sua essenza è adatta per tradizione sia per fare cornici che per cavarne incisioni – intagliando la porzione dell’opera di Carrà  al contrario, così da ottenere in stampa il verso dell’immagine dell’originale dipinto. Le immagini che risultano da questa “cornice” stampata sono degli accenni architettonici che sconfinano in parti puramente astratte e altre, invece, che indicano degli spazi precisi presenti nell’originale. L’artista  ci  sottrae la scena essenziale – il manichino ermafrodita dipinto da Carrà al centro del quadro – per sottolineare varchi e soglie, lasciando trapelare dalla finestra-cornice, una porta appena socchiusa dove s’intraveda il buio.

Maree(2024). Trovata sulla spiaggia dal resto di un incendio, la particula di legno è stata scolpita  nei nervi essenziali tanto quanto è bastato a farla guizzare fuori dalla sua condizione originaria.

eb.