Fuocherello
Bekhbaatar Enkhtur
A cura di Gabriele Tosi
Collaborazione grafica di Filippo Tappi
28/11/2021 – 13/05/2022
Nei capannoni di Volvera appaiono sale misteriose. Le sostanze della fonderia, animate da un certo fuocherello, si preparano a passare un bel fine settimana. Ma c’è da stare attenti: sono in agguato strane presenze. La situazione potrebbe farsi pericolosa.
Articolando Fuocherello in allestimenti che attraversano gli spazi del complesso artistico, Bekhbaatar Enkhtur (Ulaanbatar, Mongolia, 1994) dimostra “la necessità di concepire le figure come parte di un ambiente” (Camprini, 2021). Pur evocando, di contro, un repertorio visivo altero, dal quale emergono rimandi ai culti orientali, alle culture nomadi e alla trasmissione orale del sapere.
Nell’ufficio al primo piano – caratterizzato da grandi finestre che aprono da un lato sulla natura circostante e dall’altro sul grande laboratorio – l’artista scioglie un tempo silenzioso e pausato. I ritmi meditativi dell’aula, di fatto sospesa tra il mondo terreno del lavoro e quello spirituale del cielo, contengono la crudeltà del passaggio istruendo una ritualità argomentata nella ferocia della genesi formale e nella leggerezza propria del volo e della smaterializzazione apparente.
Degli Avvoltoi mostrano gli artigli su lastre gialle. Sono cere di fusione, materiale principe nelle procedure trasformative e dispersive della scultura. B.E. le incide in superficie, senza alternarne la potenzialità processuale. Come segni propiziatori, gli uccelli delle carcasse decorano, quasi invisibili, ‘ciò che è modellabile’, facendo così della sostanza un talismano di sé stessa e celebrando il potere magico delle fusioni: il traslare una forma (anima) in diverse materie (corpi). Al centro della sala, B.E. realizza in argilla un Trono di loto. Il fiore di loto sacro – che sorge al di sopra dell’ambiente acquatico ma non ne è contaminato, esprimendo un rapporto simbolico con l’acqua che è proprio anche dell’argilla – è in Asia la figurazione più diffusa per dare sede a un personaggio. B.E. lo immagina vuoto. Forse in attesa di un ospite o forse già occupato da un’entità spirituale. In ogni caso un corpo (con tanto di scarpe) ha potuto attraversarlo e, camminando verso le finestre, ha lasciato tracce del passaggio. Difficile dire se il personaggio venisse dalle scale o se, proprio come Buddha, sia spuntato dal fiore. In ogni caso il manufatto sembra aver già svolto la sua funzione, suggerendo ora la necessità di andare altrove.
I modi gestuali con cui B.E. manipola l’argilla dimostrano come l’artista “accentui la materialità dell’opera creando l’illusione della sua smaterializzazione” (Balbi, 2021).
Tale tratto estetico è il legante visivo dell’installazione che occupa la sala principale della fonderia, composta da sette colonne in terra rossa e dalle fusioni in alluminio di una coppia di felini guardiani.
“In oriente il leone custode è posto sulla soglia, a sottolineare la sacralità liminale, il punto in cui si passa dal fuori al dentro, si attraversa uno spazio che cambia l’esperienze può cambiare la percezione. Proprio come avviene nei protiri delle cattedrali medievali europee, quando li vediamo reggere le colonne in corrispondenza dei grandi portali. In occidente il leone è metafora di Cristo che protegge i fedeli, in oriente presenza tutelare che allontana il male e gli spiriti cattivi” (Lollini, 2021). La ricorsività degli elementi che segnano la presenza del sacro, sia esso esperibile come templio o pulpito destrutturato, descrive il peso dimensionale dell’installazione in fonderia che insiste, inoltre, con la mimesi e l’assorbimento delle polveri indigene. La terra rossa delle colonne, infatti, è quella utilizzata in loco come sostanza refrattaria contenente l’anima del modello nel processo di fusione. Le colonne di B.E. possono, da questo punto di vista, essere lette come una copia cultuale dei cilindri in terra rossa che quotidianamente entrano nei grandi forni. A riprova della traslazione del processo materico in una chiave trascendente è infatti il simbolo circolare del sole che l’artista riporta su ciascun elemento verticale del suo spazio mistico.
Tra le colonne scivolano le due sculture intitolate Felini. Le bestie si divincolano dai blocchi d’argilla trovando nella fusione in alluminio la pelle di una fissità temporale, capace di ufficiare unioni trans dimensionali nell’evento erotico della metamorfosi. Gli occhi occidentali corrono con Apollo e Bernini all’inseguimento di Dafne ma qui, invece, la soluzione panteistica slitta l’eroismo romantico in un terreno diverso. Rigoglioso ignoto di possibilità collettive ma segnato dalla paura dell’impermanenza. Gli animali
infatti “aggrediscono e inglobano altri oggetti, i sostegni diventano man mano parte integrante e spesso si adagiano, come vere bestie, su supporti improvvisati come sedie rotte, vecchi pallet, o un carrello di legno trovato” (Balbi, 2021). Anche se l’alluminio conferma il contratto fra il felino (divino) e il carrello (terreno) il cerchio non si chiude del tutto. Le ruote restano mobili preservando una via di fuga.
Vagando fra le colonne rosse si è così minacciati dalle fere ma si danza con loro. Si posseggono come oggetti e si è posseduti come spiriti. Tra “le polveri del mondo” (Bouvier, 2009) si percepisce allora che la vera posta in gioco non è la trasformazione in sé, ma il controllo delle vie d’accesso all’indefinibile. Cercando nel contatto elementare e primitivo con la materia un supplemento percettivo di conoscenza e riconoscenza. “E se il mondo ha ancora qualcosa da rivelarci, ciò sarà vero solo per chi avrà il coraggio, la disperazione e l’allegria necessari ad abbandonarsi alla sua maestosa indifferenza, alla sua ruvidità, alla sua inebriante e soffocante altitudine”. (Trevi, 2021)