giardino all’oscuro
Davide Rivalta
26.01.2024 – 01.04.2024
Giardino all’oscuro
Una conversazione tra Davide Rivalta e Miral Rivalta
Il titolo di questa mostra è tratto dal libro di Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, ispirato dalla poesia di Emily Dickinson I have not told my garden yet. L’autrice, protagonista della sua narrazione, malata di SLA, suggerisce tramite le sue esperienze e fatiche fisiche nei mesi d’infermità che un giorno il giardiniere (cioè lei) non terrà fede al suo appuntamento con il luogo che ha modellato. Pagina dopo pagina acquista sempre più consapevolezza sulla sua condizione, un giorno sarà costretta ad abbandonare il suo giardino. Man mano che la sua malattia avanza e le impedisce di occuparsene come vorrebbe il parco muta in parallelo.
In questi mesi, un altro giardino si approprierà degli spazi di Fuocherello, quello di Davide Rivalta. Mentre riflettevo su questa mostra e su cosa scriverne, dopo anni di lavoro assieme a mio padre si può dire che ho in mente il monologo dettagliato sulla sua poetica e pratica scultorea che racconto alla stampa, ai collezionisti e ai colleghi. Nonostante questo, e la mia predilezione per il suo lavoro pittorico (difatti, l’unica sua opera che posseggo è un grande quadro rappresentante un’aquila), mi trovo a sapere davvero poco sull’origine di questi lavori. Quindi, un pomeriggio, seduti entrambi alla scrivania dell’ufficio della Fonderia Artistica de Carli, approfitto di un momento particolarmente tranquillo di lavoro per fargli qualche domanda, e chiedergli da cosa nasce la sua pittura.
D: Quando lavoravo sulla scultura del primo Rinoceronte indiano usavo della polvere di creta che creava una miriade di sfumature e colori sulla superfice delle sculture, ho pensato che lo stesso procedimento potesse essere applicato alla pittura utilizzando la polvere di pigmento.
M: Una delle caratteristiche più singolari e riconoscibili del tuo lavoro è la fisicità con cui affronti la materia.
D: Si, quando scolpisco lancio la creta, allo stesso modo lancio il colore. Il mio modo di lavorare è molto istintivo e solitamente ragiono per masse e volumi. Anche gli strumenti che uso sono spesso strumenti della scultura, per realizzare gli asparagi e pomodori adopero stampi in gomma, mischio il colore ad olio con lo stesso miscelatore con cui ammorbidisco la creta. Mi è capitato addirittura di utilizzare il flessibile per levigare delle superfici di pittura indurite. Un altro elemento che mi interessa molto, e che ha a che fare con la scultura come oggetto tridimensionale, è la gravità. Mi interessa la gravità della massa pittorica e la gravità dei soggetti che ritraggo. Il vegetale che germoglia tende verso l’alto mentre l’animale, verso il basso. Così in questa mostra ci sono delle forze che si oppongono. Mi aveva interessato il tema del vegetale coltivato per l’alimentazione perché mi sembrava un argomento fortemente legato alla sopravvivenza dell’uomo e, allo stesso tempo, sono affascinato dalla meraviglia di veder germogliare un asparago o un fiore di zucchino. Invece, per gli animali dipinti, come poi anche per quelli modellati, parto interessandomi unicamente alla figura; solo in un secondo momento posiziono le sculture nel paesaggio. Ho iniziato a lavorare sugli sfondi solo dopo diversi anni, cercando questo rapporto così fondamentale nella storia della pittura tra figura e sfondo. Capita naturalmente per me di creare animali che appaiono sospesi, o in salto. In uno spazio circoscritto che non è in alcun modo definito prospetticamente e diventa materia più o meno eterea.
M: Credo sia per questa ragione che la mostra appare coesa. Gli animali non sembrano fuori luogo di fianco alla tua pittura ‘vegetale’. È come se i tuoi piccoli ‘orti’ colmassero il vuoto dato dall’astrazione dello sfondo.
D: Si, può essere.
M: Tu spesso ti riferisci alle tue opere scultoree come ritratti di animali veri, che hai incontrato in cattività e fotografato tu stesso per poi riprodurli tridimensionalmente, lo stesso vale per i quadri?
D: Si anche la mia pittura parte sempre da un’immagine fotografica. Le aquile tutte dalla stessa fotografia, anche se sono quadri molto diversi tra loro, e i rottweiler da altre foto che ho scattato negli anni. Sono studi, su come la figura, animale o vegetale, si appoggia al terreno, o è sospesa nello spazio.
M: Credo valga la pena aggiungere anche due parole sul perché siamo qui. Io e te, padre e figlia e proprio a Fuocherello con una tua mostra di pittura. Se per te va bene inizierei io con il fare un paio di premesse. È ormai da qualche anno che lavoriamo insieme a diversi progetti, e a direi che facciamo una buona squadra! Per quanto riguarda il perché qui e ora bisogna ricordare che Fuocherello è nato come progetto espositivo incentrato sulla scultura. Nonostante questo, dopo un anno e qualche mese di programmazione quasi totalmente scultorea ho sentito una grande esigenza di mostrare della pittura e, la tua, così scultorea mi è sembrata l’introduzione più congruente con il nostro progetto e il contesto nella quale la galleria si trova. Tu cosa ne pensi?
D: Si, Fuocherello è un progetto nato soprattutto per passione e volontà di fare ricerca sulla scultura. Il desiderio di Manlio Bonetto, Andrea Tolardo, Piero De Carli e Philippe Jacopin ha agito da miccia e ha permesso a Fuocherello di diventare, uno spazio di indagine sui materiali e le pratiche scultoree. La mia pittura credo abbia molto a che fare con questi elementi, attraverso la pittura affronto appieno discorsi e ragionamenti sulla scultura.
M: Ci ho sempre tenuto che la galleria fosse incentrata in particolar modo sui giovani talenti. Tu non sei giovanissimo, però mi appassiona molto l’idea di mostrare un lato della tua pratica artistica poco conosciuto. Credo infatti che questa sia una delle tue prime mostre (se non la prima) in cui sono presenti esclusivamente opere bidimensionali. D’altronde, la prima mostra che ho ospitato a Fuocherello come direttrice è stata una personale di Emaneuele Becheri, dopo il suo ‘rinascimento’ come scultore.
Il giardino di Davide Rivalta è fatto di astrazione. È un giardino in cui vegetali e fiori sono facilmente distinguibili, quasi tridimensionali e realistici, ma sfoggiano colori apparentemente improbabili e sono posizionati in campi irriconoscibili, circondati da animali estranei all’agricoltura. Le forme, materiche che emergono dalle sue tele sono interamente realizzate in colore ad olio, e spolverate, “fertilizzate”, di pigmento. Così mi torna in mente Pia Pera e il concetto di abbandono da parte del giardiniere. I giardini di Davide, i suoi orti, sono abituati ad essere abbandonati e recuperati dopo anni. Lui infatti predilige la scultura e a causa di contingenze pratiche dedica pochissimo tempo alla pratica pittorica. Inoltre, lo spessore dei suoi quadri è causa di tempi di essiccazione dilatatissimi. Per esempio, il dipinto di pomodori che avevo adoperato per la comunicazione della mostra, ha un peso quasi impensabile per un’opera pittorica di quelle dimensioni, ed ha impiegato anni a seccarsi. Infatti, il giorno che l’abbiamo appoggiato in verticale per decidere l’allestimento dell’esposizione un pomodoro, come un frutto vero superata la maturazione, ha ceduto al suo stesso peso, e non essendo del tutto secco è caduto. Dopo aver riattaccato con la pittura ad olio l’elemento ceduto, ci siamo detti che sarà per la prossima volta, riponendolo ancora una volta nella sua cassa, senza sapere quando sarà la prossima volta e se reggerà, prima o poi, il confronto con la gravità che affascina tanto Davide.