Andirivieni
AndreaDi Lorenzo

Andirivieni
Di Davide Ferri
Si intitola Andirivieni questa mostra di Andrea di Lorenzo; e, poiché ero invitato a scrivere queste righe, non ho smesso di pensare a questa parola da quando Andrea me l’ha comunicata. Andirivieni mi sembra sottendere, infatti, molti aspetti della sua pratica. Che è fatta di continui movimenti, aggiustamenti, ripensamenti, avanti e indietro, tesi a nutrire una componibilità inesauribile/inarrestabile: la forma finale della scultura di Di Lorenzo ha sempre l’aria di essere uno stato transitorio, temporaneo, qualcosa di visto di scorcio e in continua evoluzione.
L’andirivieni a cui il titolo fa riferimento, inoltre, mi sembra compreso tra due spazi definiti: quello della mostra, ovviamente, e la contigua fonderia (di cui Fuocherello è certamente un’emanazione), luogo del mestiere e del sapere delle mani, inevitabilmente scandito da ritmi e tempi precisi, e da una processualità definita e stabile.
Una specie di clandestinità, invece, è quella che avvolge lo spazio espositivo come contraltare oscuro, segreto, di quello “luminoso” che gli sta accanto, la fonderia. Una clandestinità segnata, innanzitutto, dall’intervento che Di Lorenzo ha realizzato sulle vetrate (comuni vetrate da capannone industriale, la cui vista è quella sulle Alpi Marittime, Cozie, Graie, Pennine e la campagna circostante, una campagna coltivata punteggiata da villette suburbane, a schiera, e prefabbricati), sporcate con getti di argilla cruda a simulare una pioggia sporca, una pioggia fangosa che ha lambito, depositandovisi sopra, tutte le finestre.
Se ci penso la lastra di vetro segnata e macchiata dall’argilla cruda – con dissimulata naturalezza, come semplice gesto della mano che dà vita a una scultura bidimensionale che si configura come membrana e pelle sensibile della superficie – è una delle forme emblematiche della pratica di Di Lorenzo. In una mostra collettiva di alcuni anni fa (Tragitti divaganti, distrazioni da una meta, P420, Bologna), ad esempio, le lastre di vetro con tracce di argilla (risultato di movimenti della mano circolari e curvilinei) disegnavano e reinventavano lo spazio a pochi passi dall’ingresso: erano ingombro, ostacolo ai movimenti del corpo, ma diaframma per lo sguardo, perché guardandovi attraverso si riconfiguravano, nel segno di una opacità diffusa, alcune delle opere che stavano dall’altra parte.
È in fondo quello che accade anche in Andirivieni: se da un lato i vetri con getti e macchie di argilla chiudono lo spazio, lo isolano, lo nascondono e richiudono in una dimensione privata (molto prossima a quella dello studio d’artista); dall’altro, per contrasto, guardandovi attraverso dall’interno, trasformano un paesaggio in immagine, portandolo in forma ovattata dentro lo spazio espositivo.
Ma cosa circoscrive e nasconde l’intervento sulle vetrate di Di Lorenzo? Uno spazio che ha tutta l’aria di essere una specie di “giardino segreto”, uno “studio – serra” dove coltivare il minimo e il residuale. Un territorio nel quale le cose, catalogabili come resti e strumenti del lavoro manuale (tubi e morsetti che sembrano arrivare dall’altra parte, dalla fonderia) e minimi elementi naturali che paiono prelievi da un paesaggio molto simile a quello che si vede fuori dalle finestre, un naturale esangue ma in grado di esprimere l’ultimo residuo di vitalità (evocato da calchi in acciaio e cemento di rametti e fiori secchi che hanno interrotto il loro processo di crescita), diventano unità di base di una grammatica che si svolge all’insegna della componibilità. Così le cose possono combinarsi a indicare ipotesi di nuove forme e processi di sviluppo, inerpicarsi e mettersi in equilibrio in zone marginali della stanza (per prendere dalla posizione migliore la luce che le finestre filtrano all’interno), o avvicinarsi in coppie e piccole serie a disegnare lo spazio – come punteggiatura o tratteggio – distribuendosi sul pavimento (è in genere il pavimento il luogo in cui la scultura di Di Lorenzo si traduce e configura in immagine).
Andirivieni è, infine, il movimento delle sue sculture nello spazio, la loro capacità di articolarsi in un tracciato a geometria variabile attorno un ipotetico centro, che mi piace pensare coincida con quella parete (quella principale all’interno di Fuocherello) che Andrea ha deciso di lasciare volutamente bianca, come una pagina ancora da scrivere ma “presa”, “afferrata” nel bordo del muro, come la mano sinistra blocca un supporto mentre la mano destra si prepara a scrivere. Ma stretta da cosa? Da un piccolo intervento (ripetuto anche sul bordo di uno dei muretti della stanza) che è il risultato della combinazione di un morsetto (altro elemento ricorrente nel lavoro di Di Lorenzo come primo segno di una presa di coscienza, di una presa di possesso dello spazio), e il calco in acciaio di un casco di banane non cresciuto, secco, un aborto di frutto: così, sostenuto dal morsetto, diventa anch’esso, per contagio, enigmatico strumento di un fare a venire.